Intorno agli anni 50 un gruppo di ricerca interdisciplinare formato da psichiatri, antropologi ed esperti nella comunicazione si riunì intorno alla figura di Gregory Bateson a Palo Alto. L’ipotesi di partenza era quella di comprendere e spiegare i comportamenti sintomatici dei pazienti schizofrenici, considerandoli all’interno di un contesto relazionale familiare. L’inizio della terapia familiare può essere collocato intorno al 1956, anno in cui il gruppo di Palo Alto pubblicò i risultati di una ricerca che analizzava e propugnava la teoria del “doppio legame”, mostrando un nuovo modo di studiare il contesto relazionale dei malati mentali, in particolare dei pazienti schizofrenici. Il doppio legame indica una situazione in cui , tra due individui uniti da una relazione emotivamente rilevante, la comunicazione dell’uno verso l’altro presenta una incongruenza tra il livello del discorso esplicito (quel che viene detto) e un ulteriore livello metacomunicativo (come possono essere i gesti, gli atteggiamenti, il tono di voce), e la situazione sia tale per cui il ricevente il messaggio non abbia la possibilità di decidere quale dei due livelli, che si contraddicono, accettare come valido, e nemmeno di far notare a livello esplicito l’incongruenza. Bateson ipotizzò come possibile causa della schizofrenia l’esposizione cronica a situazioni di doppio legame in ambito familiare, in particolare nei rapporti con la madre.
La Teoria generale dei sistemi di Von Bertalanffy (area di studi interdisciplinari che si occupa delle proprietà di un sistema nella sua interezza) fece da linea guida a molti studiosi del settore.
Fondato il Mental Research Institute, il gruppo di Palo Alto cominciò a seguire un orientamento più pragmatico, concentrando l’attenzione sul comportamento e sui processi interattivi e autoregolativi del sistema familiare.
Secondo Watlzawick e coll. (1967) “la famiglia è un sistema aperto, capace di autoregolarsi secondo caratteristiche proprie di ogni sistema, in quanto governata da regole comunicative che possono essere funzionali o disfunzionali”. Questo approccio non considerava i processi morfogenetici del sistema familiare, ovvero la sua storia e il suo divenire, dando vita indirettamente alla nascita di un filone di ricerca parallelo, di matrice più psicodinamica.
In Italia il grande successo della terapia familiare si ebbe alla fine degli anni Settanta grazie all’ introduzione della Riforma psichiatrica (Legge Basaglia 180/78). Da allora, la necessità di inserire i pazienti nel loro ambiente e di affidare la loro assistenza a strutture territoriali rese urgente la preparazione professionale degli operatori sanitari in materia di terapia familiare.
L’approccio strutturale alla famiglia, considerata come “gruppo con storia” secondo il modello del ciclo di vita familiare, mise in rilievo che la comparsa dei sintomi è la risposta ad una struttura familiare non organizzata in modo funzionale per mantenere la stabilità del sistema e per favorire l’evoluzione e il cambiamento dei singoli individui che la compongono.
Diviene chiaro, secondo autori come Ackerman e coll., l’ importanza della ricerca e dello studio della trasmissione intergenerazionale di regole e miti familiari, dei patti di lealtà che si formano tra le generazioni e dei processi di individuazione dell’ io familiare nel lavoro psicoterapeutico.
L’approccio alla famiglia “praticante” (insieme dei comportamenti e delle sequenze interattive osservate) e “rappresentata” (insieme delle rappresentazioni e credenze che di essa hanno i diversi membri) si fonderanno sempre più nello studio dei cosiddetti “copioni familiari”.
L’esigenza dell’integrazione tra i vari aspetti dinamici ha coinvolto anche l’aspetto biologico e genetico dei sintomi. In un importante articolo, Gabbard (2000) ha sostenuto che la ricerca nel campo della neurobiologia ha di fatto portato dati a favore dell’utilità della psicoterapia. Il cervello risponde alle influenze ambientali attraverso la modificazione dell’espressione dei geni, per cui è opportuno superare la dicotomia tra disordini a base psicologica, trattabili con la psicoterapia, e disordini a base biologica, da trattare farmacologicamente. Anzi, oggi possiamo dire che la psicoterapia ha effetti biologici così come gli psicofarmaci hanno effetti psicologici.
Giovanni Liotti (2001) propone che “se la radice del disturbo mentale è biologica, allora è necessaria la psicoterapia. Applicando queste osservazioni alla teapia familiare, oggi non si parla più di famiglia come causa della malattia, ma come risorsa da coltivare nella psicoterapia.
La terapia familiare ad orientamento sistemico-relazionale ha trovato, in Italia e nel mondo, varie applicazioni. Una delle più note è la Terapia Sistemica della Famiglia di Bert Hellinger. La Terapia Sistemica serve a scoprire le dinamiche nascoste che legano una persona alla propria famiglia, offrendole l’occasione di conoscere meglio la propria realtà e quella degli altri membri familiari e indicandole un modo più appropriato e soddisfacente di rapportarsi a loro. Queste dinamiche si possono esplorare con la rappresentazione delle costellazioni familiari. esse sembrano provare che ogni famiglia, ogni stirpe, ha qualcosa come un proprio campo cosciente, con il quale si può entrare in contatto per avere importanti informazioni su ciò che disturba o favorisce l’equilibrio nelle relazioni intime. Per Hellinger la conoscenza inizia laddove l’individuo riconosce “ciò che è”, intendendo l’insieme delle vicissitudini storiche, emotive e psicosociali del suo gruppo di appartenenza.
L’approccio sistemico-relazionale si basa su una forte alleanza, fatta di fiducia, collaborazione e affetto, tra paziente e terapeuta, Nel corso delle terapie sistemico-relazionali, tale rapporto deve stabilirsi tra il “sistema famiglia” e il terapeuta, nel senso che l’alleanza deve mirare al contenimento e all’armonizzazione delle parti in causa e non semplicemente alla difesa del singolo membro del gruppo. Ciò anche quando all’interno del sistema si riscontri un membro effettivamente più debole e incline ad assumere ruoli di vittima.
Nelle terapie familiari si perviene alla soluzione quando ogni membro della famiglia trova il posto che gli compete, e questo posto gli viene riconosciuto.
Il Centro Studi Bhaktivedanta, dopo approfondite ricerche nel campo della psicologia sistemica e dopo metodiche comparazioni con la tradizione psicologica indovedica, ha elaborato una tecnica terapeutica denominata ANALISI SISTEMICO- RELAZIONALE PSICODINAMICA INTEGRATA.
Con questa tecnica si tenta di scoprire se qualcuno, all’interno della “famiglia estesa” (comprendente padre, madre, figli – anche quelli abbandonati o abortiti – zii, nonni e altri appartenenti alla famiglia con un destino particolare) è stato “irretito” nel destino di un precedente membro familiare. L’irretimento si può notare con la rappresentazione delle costellazioni familiari (o psicodrammi familiari). Nel momento in cui l’irretimento diventa evidente, è possibile liberarsene.
Con questa tecnica di gruppo, è possibile conseguire risultati effettivi già dopo una seduta. (C’è da notare che le ricerche condotte sull’efficacia dei risultati delle terapie familiari ad orientamento sistemico dimostrano che già dopo cinque sedute i pazienti, nel 50% dei casi, dichiarano di aver conseguito risultati apprezzabili).
Nella rappresentazione familiare si prendono in considerazione tutti, anche gli assenti.
Si dispongono i partecipanti in cerchio e si chiede ad uno dei partecipanti di prendere posto al centro, seduto.
Gli si chiede di spiegare il suo disagio e di descrivere la sua storia familiare e personale.
Lo si invita a scegliere tra il pubblico le persone adatte a rappresentare i personaggi della sua famiglia. Se vuole, può scegliere dove posizionare gli attori prescelti.
Si chiede a lui e alle persone che interpretano il ruolo dei familiari di dire come si sentono in quella posizione.
L’approccio originale della scuola, rispetto ai modelli più noti di psicoterapia sistemico-relazionale, è costituito dalla chiara impostazione psicodinamica (esame della storia familiare nel suo divenire) e dallo sfondo filosofico di riferimento, ispirato ai principi psicologici del Bhakti Yoga.
In questa tecnica, tipicamente olistica, confluiscono principi di diversa matrice metodologica.
Innanzi tutto la conduzione dell’esperienza da parte del terapeuta è tale da lasciar emergere gradualmente i sentimenti più genuini e spontanei del paziente, favorendo lo scioglimento di nodi conflittuali all’interno della famiglia e di questioni relazionali che si trascinavano talvolta da generazioni.
La non direttività dell’approccio favorisce una presa di coscienza che può continuare anche nei giorni successivi alla seduta e svilupparsi in modo libero e in linea con la disponibilità/resistenza interiore del paziente a superare il conflitto, garanzia di una conquista reale e stabile di nuovi e migliori equilibri.
La rappresentazione visiva dei ruoli attua, senza necessità di ulteriori interpretazioni, una riproduzione, in un ambiente emotivamente protetto, di dinamiche spesso altamente ansiogene, permettendo una valutazione più obiettiva e distaccata dell’azione e dell’impatto delle storie di vita dei componenti familiari nel proprio vissuto, nelle proprie scelte affettive (e spesso professionali) e nell’atteggiamento verso gli altri.
Questa tecnica, inoltre, aiuta a concepire sé stessi come parti di un tutto, e a comprendere le profonde e sottili corrispondenze che legano gli appartenenti ad uno stesso gruppo familiare e sociale.
Infine, questo metodo si prefigge di scoprire nuove possibilità e potenzialità dell’uomo. In effetti ogni individuo non è soltanto il prodotto dell’anello che lo unisce alla lunga catena dei suoi progenitori, ma è anche colui che detiene la possibilità di risvegliarsi o illuminarsi. I rapporti familiari e affettivi celano la grande opportunità, per l’essere umano, di sviluppare quella scintilla di eternità che si manifesta attraverso le sue azioni, i suoi pensieri e le sue risposte agli eventi.
La rappresentazione delle costellazioni familiari mostra come la storia personale di ognuno costituisca solo un frammento temporaneo della sua identità più profonda, che è eternamente libera e beata, incline a ricercare un rapporto di amore universale verso il creato, le creature e il Creatore. Questo supremo divino Amore, nella tradizione psicologica indovedica, viene chiamato Bhakti.
La Bhakti costituisce il fondamento e il fine stesso dell’esistenza; è quel divino amore che risplende per l’assenza di interessi egoici, privo di aspettative o calcoli utilitaristici. E’ un amore proveniente dalla realtà più elevata, da Dio, dal grande Amico e Amante di tutti gli esseri, capace di risvegliare la coscienza e le qualità superiori dell’anima: bontà, amicizia, compassione, tolleranza, generosità, lungimiranza, saggezza e conoscenza realizzata.
Come dimostrano, infatti, gli studi sulle affinità karmiche e sulle relazioni affettive e familiari condotti dal Centro Studi Bhaktivedanta, l’esperienza relazionale ed affettiva si rivela sempre propedeutica ad un percorso di autoconoscenza e di realizzazione interiore. Le relazioni interpersonali hanno reale valore e portano autentico beneficio nella misura in cui conducono l’individuo ad una maggiore consapevolezza della propria essenza profonda di natura spirituale.
Questa tecnica, efficacissima nella terapia familiare, di gruppo, di coppia, individuale, nella scuola, negli ospedali, negli uffici, in azienda, nelle carceri, ha come caratteristica principale quella di fare riferimento agli “ordini dell’amore” e alle forze guaritrici delle origini del sistema familiare.
“Ogni essere umano è parte di un tutto chiamato Universo. Egli sperimenta i suoi pensieri e i sentimenti come qualcosa di separato dal resto: una specie di illusione ottica della coscienza. Questa illusione è una specie di prigione. Il nostro compito deve essere quello di liberare noi stessi da questa prigione attraverso l’allargamento del nostro circolo di conoscenza e comprensione, sino ad includere tutte le creature viventi e l’interezza della natura nella sua bellezza.” A. Einstein.