Definiti da Jung come forme universali del pensiero dotate di contenuto affettivo, gli archetipi sono impronte presenti nell’uomo come un’eredità genetica, come un marchio di appartenenza alla razza umana. Essi rappresentano il nucleo intorno al quale si sviluppa e si arricchisce l’inconscio collettivo, il contenitore simbolico che riunisce in un processo dinamico ogni evento dell’umanità. Possiamo immaginare l’inconscio collettivo come un grande fiume che tocca ogni sponda e che in sé contiene tutto ciò che era presente alla sorgente.
La parola archetipo deriva dal greco antico e significa “immagine primordiale” (da tipos = modello, marchio, esemplare e arché = originale).
Gli archetipi principali (da cui originano tutti gli altri) sono tradizionalmente sette e vengono considerati in coppie di opposti: Femminile e Maschile, Nemico ed Eroe, Morte e Rinascita e infine il Viaggio.
Temi e schemi dominanti nella vita dell’uomo che si ritrovano in ogni cultura e che hanno un’eco nei miti, nelle favole, nelle leggende, gli archetipi sono sperimentabili in ogni fase della nostra vita: nel momento in cui lasciamo la casa di origine per avventurarci nel mondo potremo sentire l’azione dell’archetipo del viaggio; nel momento in cui decidiamo di mettere al mondo dei figli, sentiremo, se siamo donne, il potere del femminile, della madre, dell’anima o, se siamo uomini, il maschile, il grande padre, il logos.
Ogni momento della nostra vita ci porrà a confronto con queste energie che facilmente si manifesteranno nei sogni.
L’inconscio collettivo, per Jung, è costituito sostanzialmente da questi modelli universali, impersonali, innati ed ereditari. Integrandosi con la coscienza, essi vengono rielaborati continuamente dalle società umane, manifestandosi “contemporaneamente anche in veste di fantasie e spesso rivelando la loro presenza solo per mezzo di immagini simboliche”.
Essi nel tempo si rafforzano, si indeboliscono e possono anche morire.
La sopravvivenza degli archetipi, in epoca moderna, è legata anche agli esiti della comunicazione di massa. Un film di successo, un libro, una trasmissione televisiva molto seguita possono giocare un ruolo nel ravvivarli o indebolirli.
I sociologi, attingendo a piene mani dal lavoro di Jung, hanno sviluppato l’idea che gli archetipi mitici possano essere individuati al di là dei confini tra le culture.
Un archetipo universalmente diffuso e rintracciabile in tutte le culture, intorno al quale ruotano molti miti e leggende, è quello del MAESTRO.
La sua immagine guida presiede da tempo immemorabile alla trasmissione del sapere, di generazione in generazione, aiutando il singolo nel suo cammino di formazione e consentendogli di affrontare con coraggio e determinazione il mondo e la vita.
L’archetipo del Maestro svolge nell’inconscio collettivo lo stesso compito che il padre personale svolge nei confronti dei figli.
Nella tradizione sciamanica degli indios, il Maestro rappresenta uno dei quattro principi base dell’evoluzione umana, insieme al principio del Guerriero, del Guaritore e del Veggente.
La Via del Maestro è quella che sviluppa la capacità di comunicare ed insegnare.
L’importanza che l’imago del Maestro assume nel separare i figli dal protetto mondo materno e nell’iniziarli alla vita, le conferisce un ruolo particolare nei confronti dell’evoluzione psichica e spirituale della collettività.
Nel Cristianesimo, la relazione con l’archetipo del Maestro è particolarmente forte, alimentata dall’idea di una divinità incarnata (il Maestro dei Maestri) che redime attraverso l’Insegnamento, l’esempio e il sacrificio. La storia dei Padri della Chiesa e del Monachesimo testimoniano quanto questo archetipo si esprima in immagini vivide e operanti nella coscienza cristiana.
Prima dell’avvento del Cristianesimo possiamo rintracciare l’archetipo del Maestro nelle figure del Sacerdote egiziano e del Patriarca ebraico.
Il corpo sacerdotale egiziano era nutritissimo, composto da profeti che rivestivano la carica gerarchica più alta, da sacerdoti alle dirette dipendenze di profeti, da orari e da sacerdotesse.
Gli Egizi chiamavano i profeti itu neter (padri divini) o hemu neter (servitori del dio).
Questi profeti formavano una gerarchia alla cui testa era il gran sacerdote o primo profeta.
Nell’ebraismo, il titolo di patriarca era riservato ai più antichi personaggi della Bibbia, citati nel libro della Genesi, dai quali discende il popolo ebraico.
Nell’Antico Testamento la figura del patriarca assumeva una forte connotazione positiva: essa incarnava infatti una nuova concezione della paternità, in cui l’aspetto affettivo, superando la semplice relazione biologica padre-figlio, si integrava con la dimensione sociale e si esprimeva concretamente nell’educare e crescere anche i figli degli altri. L’autorità si coniugava quindi con l’amore, non con il potere, e svolgeva una funzione di tipo pedagogico.
Nel mondo greco, i due elementi cardine dell’insegnamento e dell’educazione impartita dai maestri erano le azioni e le parole: érga ed épea, o ginnastica e musica. Per musica s’intendeva la conoscenza delle tradizioni patrie, quella che oggi chiameremmo letteratura, che allora si tramandava cantando in coro; mentre ginnastica era l’addestramento alla guerra, attraverso vari sport e la danza pirrica o guerresca. Omero e Esiodo ne furono due grandi rappresentanti.
Uno splendido esempio del rapporto maestro/discepolo dell’antichità classica è costituito da quel capolavoro filosofico e letterario racchiuso nelle “Lettere a Lucilio” di Lucio Anneo Seneca, una raccolta di 124 lettere divise in 20 libri di differente estensione e di vario argomento indirizzate all’amico Lucilio (personaggio di origini modeste, proveniente dalla Campania, assurto al rango equestre e a varie cariche politico-amministrative).
L’opera costituisce sostanzialmente un unicum nel panorama letterario e filosofico antico. Seneca prende come esempio Epicuro, il quale, nelle lettere agli amici, ha saputo realizzare quel rapporto di formazione e di educazione spirituale che Seneca istituisce con Lucilio.
Seneca, proponendo ogni volta un nuovo tema, semplice e di apprendimento immediato, alla meditazione dell’amico discepolo, lo guida al perfezionamento interiore; per lo stesso motivo, nei primi tre libri, Seneca conclude ogni lettera con una sentenza che offre uno spunto di meditazione. Le sentenze sono tratte da Epicuro, anche se Seneca non si dichiara suo seguace. Egli sostiene, infatti, che ogni massima moralmente valida è utile, da qualsiasi fonte provenga.
La vita di Seneca, e perfino la sua fine, costituisce un vero e proprio archetipo della figura del Maestro, con tutto il suo complesso di simboli, di significati e di valori.
La Tradizione Indovedica propone, invece, un diverso archetipo del Maestro.
Innanzi tutto, il termine con cui viene definita tale figura è Guru.
Guru è un termine sanscrito che significa maestro o precettore spirituale; si tratta di una figura molto importante, addirittura essenziale, comune a tutte le scuole filosofiche e devozionali dell’Induismo, alle quali va tributato massimo rispetto e venerazione (così come ai rishi, ai profeti mistici e ai pandit, gli eruditi).
Le scritture indovediche da sempre considerano il guru una incarnazione di Dio.
Le Upanisad infatti dichiarano:
Āchārya devo bhava (tr.: considera il Maestro come Dio)
Le maggiori scuole di pensiero indovedico concordano sul fatto che la liberazione in questo mondo duale sia ottenibile sotto la grazia di Isvara, il Signore, il quale la concede all’aspirante spirituale (sadhaka) sotto le sembianze del guru.
L’etimologia del termine, secondo alcune interpretazioni delle Upanisad, viene dalle radici gu (oscurità) e ru (svanire), intendendo quindi colui che disperde l’oscurità.
Il rapporto che si instaura tra guru e discepolo è estremamente intimo e profondo, molto più di quanto ci si aspetterebbe tra maestro e allievo in una mera trasmissione di conoscenza. Il guru diviene responsabile della crescita spirituale dell’aspirante, istruendolo e fornendo le istruzioni più adatte a lui, e soprattutto indicandogli tempi e modalità di esecuzione delle pratiche spirituali.
La tradizione Bhaktivedantica sottolinea in tutte le Sacre Scritture la necessità della guida di un Maestro spirituale autentico per poter evolvere:
“Cerca di conoscere la verità avvicinando un maestro spirituale, ponigli delle domande con sottomissione e servilo. L’anima realizzata può rivelarti la conoscenza perché ha visto la verità” (Bhagavad-gita, verso 34, capitolo 4).
“Per la misericordia del maestro spirituale, puro devoto del Signore, e per la misericordia dei Krishna stesso, si raggiunge il servizio di devozione. Non c’è altro modo.”
(Caitanya-caritamrita, Madhya, 19.151)
“Chiunque sia seriamente alla ricerca della vera felicità, deve cercare un Maestro spirituale autentico e prendere rifugio in Lui attraverso l’iniziazione. Il guru ha realizzato la conclusione delle Scritture ed è capace di trasferirla ad altri. Quelle grandi anime che si sono abbandonate alla Persona Suprema, trascurando ogni tornaconto materiale, sono da riconoscere come Maestri spirituali autentici.”
(Bhagavata Purana, XI, 3.21)
“A colui che ripone in Dio suprema Bhakti, e come in Dio così nel Maestro spirituale, a quel magnanimo invero si manifesta la Verità della Rivelazione; a quel magnanimo invero si manifesta.”
(Shvetashvatara Upanishad, VI.23)
Secondo questa tradizione, il primo Maestro dell’Universo è Brahma.
Brahma nasce adulto, ma vede solo oscurità. Il sole non è stato ancora creato e neppure la luna. Mentre guarda intensamente in tutte le direzioni, improvvisamente appaiono quattro teste al posto della sua. Anche con questa maggiore capacità però non vede niente e non può capire il mondo vuoto attorno a lui e lo scopo della sua presenza.
Egli è nato per creare, ma non è sicuro su come affrontare il suo compito. Allora, meditando profondamente sull’opera che lo aspetta, prega di avere qualche indicazione su come procedere.
Improvvisamente, in risposta alla sua preghiera, sente due sillabe: ta-pa. Ascoltando intensamente, le sente di nuovo — ta-pa — e il suo percorso diventa un po’ più chiaro. La parola significa “austerità”.
Da questo allora comprende che il Signore gli sta mandando un messaggio: per servire il Signore in questa funzione così fondamentale, collaborare alla creazione, gli viene richiesto di qualificarsi con una attenta meditazione e di sviluppare un profondo senso di austerità.
Dopo mille anni celesti, la meditazione di Brahma s’interrompe. Ora sa cosa fare e come farlo. La sua profonda concentrazione gli ha dato una visione del mondo spirituale, dove risiede il suo amato Visnu. Per Brahma i confini tra mondo materiale e spirituale svaniscono e lui vede la realtà in tutta la sua bellezza.
Sopraffatto dalla forma del Signore, dalla Sua natura e dal Suo splendore, dai Suoi meravigliosi associati e da ciò che lo circonda, Brahma compone centinaia di versi che successivamente vengono raccolti in un libro conosciuto come Brahma-samhita. Poi, riacquistando la sua compostezza, rivolge l’attenzione al compito imminente. Dalla sua mente nasce una progenie e da essa un’imponente schiera di specie per popolare i pianeti, le acque e i cieli. Fra tutti i primi figli di Brahma, Narada è il più caro. Brahma gli spiega la verità del mondo spirituale e gli chiede di condividerla con le moltitudini che ora popolano il mondo. Trascorrono gli Eoni e la missione di Narada ottiene il suo più grande successo quando egli consegna il messaggio a Vyasa che mette in forma scritta le verità vediche, raccogliendo quella conoscenza che per millenni era stata trasmessa oralmente.
Vyasa prende l’unico originale Veda e lo divide in quattro parti per facilitarne la comprensione. Successivamente, per dare l’essenza della verità vedica che non era chiara nelle opere precedenti, compila il Mahabharata e i Purana. Affida ciascuna di queste opere ad eruditi di perfetta formazione ed essi a loro volta insegnano i testi ai loro discepoli e ai discepoli dei discepoli. In questo modo vengono fondate le rispettive scuole del pensiero vedico. Le successioni discipliche esoteriche continuano a trasmettere il nucleo essenziale della verità vedica. Una di queste successioni discipliche va da Brahma a Narada a Vyasa e giù fino a Srila Prabhupada, fondatore-acarya del movimento Hare Krishna.
Shiva, il deva il cui compito è la distruzione dell’universo, è il fondatore di una successione disciplica nota come Rudra-sampradaya. Laksmi, la dea della fortuna e moglie di Visnu, ne fonda ancora un’altra. E i quattro Kumara, figli di Brahma che praticano il celibato, un’altra ancora.
La verità religiosa non può essere compresa col semplice intelletto o con giochi cerebrali di parole. Non si può capire diventando esperti di sanscrito o ottenendo una laurea in filosofia. Queste cose sono lodevoli e in qualche modo possono anche essere utili lungo il cammino. Quello che conta però è un cuore sincero, desideroso di sottomettersi a un maestro spirituale con reverenza e attitudine di servizio, per apprendere da qualcuno che sa — non da uno che ha semplicemente imparato dai libri.
Da un punto di vista psicologico, l’archetipo del Maestro mette in gioco la capacità di allevare, nutrire e formare gli esseri umani per condurli a quella seconda nascita che li aiuterà a uscire dall’unità naturale della famiglia e della società mondana.
In Occidente, il processo di secolarizzazione iniziato con la modernità, rendendo marginale il ruolo del sacro nella vita e separando nettamente la sfera religiosa da quella civile, ha consentito lo sviluppo della scienza e della tecnica, ma nello stesso tempo ha indebolito il rapporto della coscienza con la figura del Maestro e con tutta la sua valenza affettiva e formativa. Al suo posto è subentrata la tecnologia, che esercita, in modo impersonale e disincarnato, l’autorità del sapere. Si tratta di un processo che giunge oggi a piena maturità con la diffusione a livello di massa dell’informatica e con l’impatto che computers e internet hanno sul sistema educativo.
Affascinati dal successo dell’high tech, anche nella scuola molti si sono illusi che le procedure di tipo tecnico-scientifico, i cosiddetti metodi fatti di obiettivi e di tappe, possano garantire una trasmissione del sapere al passo con i tempi. In quest’ottica perfino il ruolo dell’insegnante è stato sottovalutato e svilito.
Di fronte alle sfide della società postmoderma non si tratta di rimpiangere il passato.
Gli archetipi, come il letto di un fiume, sono sempre pronti a riempirsi di acqua nuova.
E’ però necessario entrare in relazione con loro, come i sogni, la fantasia e l’immaginazione ci invitano a fare.
E’ auspicabile recuperare una relazione con la figura del Maestro e riconoscere l’intreccio indissolubile tra autorità, sentimento ed esempio.
Contro tutte le illusioni di una metodologia “oggettiva” che promette di sviluppare capacità e fornire competenze sulla base di standard uniformi, si tratta invece di accettare il rischio di una relazione personale, una relazione sempre soggetta allo scacco, ma dalla quale soltanto può nascere nuovo e profondo sapere.
Caterina Carloni
Molto interessante e utile il lungo articolo sugli archetipi. Davvero ce n’era bisogno. Grazie