“Non passione ci vuole, ma compassione, capacità cioè di estrarre dall’altro la radice prima del suo dolore e di farla propria senza esitazione” (F.M. Dostoevskij)
KARUNA è un termine sanscrito e significa compassione, pietà, empatia. Si riferisce alla qualità di chi desidera il Bene di ogni essere vivente.
Questa dote è tra le più importanti tra quelle che lo Yoga della Bhakti definisce come “le 26 qualità del ricercatore spirituale” ed ha la caratteristica di essere estremamente contagiosa, quasi travolgente, virale.
Ma cos’è la compassione?
La compassione (dal latino cum patior, soffro con, e dal greco sym patheia , simpatia, provare emozioni con..) è un sentimento con il quale si percepisce emozionalmente la sofferenza altrui provandone pena e desiderando alleviarla. Il concetto di compassione richiama quello di empatia (dal greco empateia, composta da en, “dentro”, e pathos, “affezione o sentimento”), usato per indicare il rapporto emozionale di partecipazione soggettiva che legava lo spettatore del teatro greco antico all’attore recitante ed anche l’immedesimazione che questi aveva con il personaggio che interpretava. Nelle scienze umane, il termine empatia serve a designare un atteggiamento umano di comprensione verso gli altri che esclude ogni giudizio morale e ogni prevenzione (www.wikipedia.it).
In psicologia, per compassione s’intende la condivisione della sofferenza altrui, spesso accompagnata dall’offerta di appoggio emotivo e di solidarietà, anche di tipo pratico. Costituisce uno dei valori fondanti nella vita di ogni individuo, poiché testimonia la coscienza che l’esistenza presenta anche esperienze di dolore di cui tutte le creature sono partecipi. In tal senso, una compassione senza limiti verso tutti gli esseri viventi è la base primaria della saggezza.
Già nella tradizione latina antica, ben precedente a quella cristiana che farà di Gesù l’uomo compassionevole e altruista per eccellenza, il sentimento della pietas (non correttamente traducibile come” pietà”) indicava il rispetto verso gli dei, la completa dedizione alla patria e la disponibilità al sacrificio per il bene della famiglia: l’uomo pius è colui che mette sempre se stesso dopo gli altri, considera le esigenze del prossimo e lo soccorre ancor prima che questi gli chieda aiuto.
Il personaggio letterario che meglio incarna questo valore è Enea, l’eroe virgiliano. Il pius Aeneas, a differenza di Ulisse, che sfida la volontà divina e ricorre spesso all’astuzia, e diversamente da Achille, l’eroe impetuoso dall’ira funesta e inarrestabile, è consapevole del ruolo che lo attende e non esita a trasformarsi in docile strumento del Fato.
In epoca più tarda la pietas viene conglobata nel concetto di humanitas e ne diventa un aspetto: ogni individuo, oltre che essere pius, non deve dimenticare nemmeno se stesso, le proprie esigenze, la propria peculiarità, e in questa accezione allargata non si esclude che in certi casi sia benefico essere compassionevoli anche verso se stessi.
Elemento fondamentale della compassione è l’empatia, cioè la capacità di sentire i pensieri e gli stati d’animo di un’altra persona, di portare l’altro nel proprio mondo, di gioire e soffrire insieme. Essa costituisce un modo di comunicare nel quale si mette in secondo piano il proprio modo di percepire la realtà per far risaltare in se stessi le esperienze e le percezioni dell’altro. Si tratta di una forma molto profonda di comprensione umana perché basata sull’immedesimazione nei sentimenti altrui; ci si sposta da un atteggiamento di mera osservazione esterna (come l’altro appare all’immaginazione) al “sentire come l’altro” (con quell’esperienza di vita, con quelle origini, con quella visione).
La compassione è un sentimento che dona immensi benefici, ma a condizione che sia senza sforzo, spontanea, priva di giudizio e che non pretenda nulla in cambio: non è solo un flusso di energia da chi è più fortunato verso chi lo è meno; la persona compassionevole riceve in ogni caso un insegnamento da colui o colei che ha soccorso, se non altro perché ha avuto modo di guardare se stesso nelle reazioni dell’altro, come in uno specchio. Se poi, dopo esserci mostrati solidali con la sofferenza di qualcuno, pretendiamo qualcosa in cambio o chiediamo che la persona manifesti una perenne riconoscenza, significa cha abbiamo agito in base ad un ragionamento calcolato. E in quel momento none eravamo né sinceri né compassionevoli.
Anche annullarsi totalmente nel dolore e nella sofferenza altrui, fino ad arrivare a perdere la propria identità, non significa essere veramente compassionevoli; la compassione, al contrario, si esprime attraverso uno scambio di esperienze e di vissuti, guardando l’altro in profondità e accogliendone l’espressione e le emozioni più autentiche.
Nella tradizione cristiana, la qualità spirituale della compassione è esaltata nella famosa parabola del “buon samaritano” (Vangelo secondo Luca 10.25-37), in cui Gesù spiega ad un dottore della legge chi è il nostro prossimo:
“Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e dei briganti lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella stessa strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede al locandiere, dicendo: «Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno».”
I sacerdoti erano religiosi che officiavano nel tempio a Gerusalemme. I leviti erano coloro i quali prestavano servizio nello stesso tempio con varie mansioni, ed anch’essi, come i sacerdoti, erano ritenuti da tutti molto religiosi. Fra samaritani e giudei non correva buon sangue, si disprezzavano a vicenda.
Il racconto comincia quando un dottore della legge domanda a Gesù che cosa è necessario per ottenere la vita eterna, con lo scopo di metterlo in difficoltà. Gesù, in risposta, chiede al dottore cosa dica la legge di Mosè a tale proposito. Quando il dottore cita la Bibbia, e precisamente: “amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Deuteronomio 6,5) e la legge parallela “amerai il tuo prossimo come te stesso” (Levitico 19,18), Gesù dice che ha risposto correttamente e lo invita a comportarsi di conseguenza.
A questo punto il dottore chiede a Gesù di spiegargli chi è il suo prossimo. Gesù gli risponde con la parabola. Al termine della parabola Gesù chiede al dottore della legge chi dei tre sia stato il prossimo dell’uomo derubato. Il dottore non risponde “il samaritano” ma “chi ha avuto compassione di lui”. Gesù conclude: “Va’ e anche tu fa’ lo stesso”.
Caterina Carloni
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