Invidia, E. Munch, 1901
Lo Srimad Bhagavatam, uno dei testi vedici più rappresentativi della Tradizione Bhaktivedantica, narra di un re invidioso che, benché nemico di Krishna, non smetteva mai di pensare a Lui; la sua coscienza, infatti, era talmente assorta nel Signore Supremo che ottenne infine la liberazione dal ciclo di nascite e morti e il ritorno alla Sua dimora originale.
Il suo nome era Sisupala e questa è la sua storia.
“Shri Badarayani disse:
C’era un re di nome Bhismaka, il potente sovrano di Vidarbha, che aveva cinque figli e una figlia dal viso leggiadro. Il suo nome era Rukmini.
Sentendo parlare della bellezza, del valore, della personalità trascendentale e delle opulenze di Mukunda (Krishna) da coloro che visitavano il palazzo e cantavano le Sue glorie, Rukmini decise che Egli sarebbe stato il marito perfetto per lei.
Krishna sapeva che Rukmini aveva intelligenza, segni fisici propizi, bellezza, ottimo carattere e tutte le altre buone qualità. Concludendo che sarebbe stata un’ottima moglie per Lui, decise di sposarla.
Ore, poiché Rukmi, il fratello di Rukmini, provava invidia per il Signore, proibì ai componenti della sua famiglia di concedere la sorella a Krishna, anche se questa sarebbe stata la loro volontà. Rukmi decise invece di dare Rukmini a Sisupala.
Vaidarbhi dagli occhi neri (Rukmini), consapevole di questo piano, ne fu profondamente irritata. Dopo aver considerato la situazione, inviò a Krishna in gran fretta un brahamana di fiducia.”
(Srimad Bhagavatam, canto X, capitolo 52, versi 22-26)
L’invidia trova ampi spazi di riflessione nella cultura romana con Cicerone (106 a.C. – 43 a.C.) che la considera un sentimento devastante, impossibile da arrestare una volta manifestato così che «quando l’invidia infuria in tutta la sua violenza contro di essa risulta impotente il singolo e persino un’intera istituzione» come il senato romano.
Tito Livio (59 a.C. – 17 d.C.) ribadisce questo carattere distruttivo dell’invidia quando nei confronti del console Quinto Fabio Massimo questa si accompagnò alla diffamazione (obtractatio) dell’uomo invidiato per il suo successo.
Nella dottrina cristiana l’invidia compare fin dai tempi biblici con il fratricidio di Caino invidioso dell’amore di Dio per Abele. Lo stesso vizio capitale attraversa l’Antico Testamento, che lo definisce «carie delle ossa», per giungere fino al Nuovo dove Cristo viene condotto da Pilato che «sapeva bene che glielo avevano consegnato per invidia».
Per Sant’Agostino l’invidia è il «peccato diabolico per eccellenza».
Dante, che nella sua visione del purgatorio raffigura gli invidiosi con gli occhi cuciti, così si esprime:
«Fu il sangue mio d’invidia sì riarso
che se veduto avesse uomo farsi lieto,
visto m’avresti di livore sparso”
(Dante Alighieri, Purgatorio, XIV, vv.82-84)
Francesco Bacone (1561–1626) per primo tratta “dell’invidia “pubblica” che capovolge il normale percorso di chi, privo di qualcosa, sentendosi in basso, invidia chi sta in alto. Nell'”invidia del re” il procedere è al contrario: dall’alto verso il basso; paradossalmente, cioè, chi ha una posizione di grande vantaggio invidia e teme colui che dal basso sembra voler colmare la distanza da lui per prendere il suo posto. Allora i politici saggi «faranno bene a sacrificare qualcosa sull’altare dell’invidia permettendo essi stessi, talvolta del tutto intenzionalmente, che alcune cose vadano loro male, o soccombendo in cose a cui non tengono troppo.» (F. Bacone, Saggi, trad.it. di A. Prospero, ed. De Silva, Torino, 1948 p.35 e sgg.).
Continua……
Caterina Carloni