La vostra visione apparirà più chiara soltanto quando guarderete nel vostro cuore.
Chi guarda l’esterno, sogna.
Chi guarda all’interno si sveglia.
(Karl Gustav Jung)
La parola Yoga significa “unire, congiungere”, e comprende vari metodi per controllare la mente e i sensi al fine di ricollegare l’individuo alla sua matrice originale, Dio, la Persona Suprema.
Fino a non molto tempo fa, lo Yoga era una disciplina sconosciuta al di fuori dell’India, dove invece viene largamente praticata da millenni. In poco tempo tuttavia si è diffusa anche in Occidente, dove palestre, scuole ed aziende ne promuovono ormai quasi sistematicamente la pratica. Oggi i suoi benefici effetti psicofisici sono riconosciuti da medici e psicologici, che ne consigliano l’esercizio ai loro pazienti. Festival, manifestazioni e meeting sullo Yoga sono promossi in tutto il mondo, raccogliendo sempre molti consensi e adesioni.
Lo Yoga Darshana, secondo la cultura vedica, rappresenta uno dei sei sistemi filosofici del pensiero indiano classico e, nello stesso tempo, la più antica scuola di Psicologia conosciuta dal genere umano.
I fondamenti teorici e pratici della Scienza dello Yoga, detto anche Ashtanga Yoga (Yoga in otto fasi), sono sinteticamente raccolti negli Yoga-sutra di Patanjali, autore vissuto intorno al III secolo avanti cristo. La sua opera è composta di quattro libri (Samadhi Pada, Sadhana Pada, Vibhuti Pada e Kaivalya Pada) e contiene complessivamente 196 sutra, cioè brevi affermazioni concatenate tra loro che espongono una tecnica psicofisiologica il cui fine è quello di superare gli stati ordinari di coscienza per giungere alla realizzazione dell’unità con il Divino e al ricongiungimento con il Purusha supremo, Dio, Ishvara.
Scrive Marco Ferrini in “Contesto e fonti della letteratura vedica” (edizioni CSB): “Questo Scienza è universalmente considerata di origini orali antichissime (nel sesto capitolo della Bhagavad-gita Krishna spiega questo stesso Yoga al suo discepolo Arjuna) ed ha esercitato un’influenza notevole sulle successive scuole di pensiero, non solo indiane. Testimonianze significative di questa dottrina si trovano in numerose opere vediche: Rigveda (X.136), Katha (II.6.11-18), Brihadaranyaka (I.V.23) e Shvetashvatara Upanishad (II.8-16), nel Matsya Purana e nel Bhagavata Purana” (XI.15-15).
Il termine “psicologia” deriva dal greco psyché, che significa “spirito, anima” e da logos, che vuol dire “discorso, studio”. Letteralmente la psicologia è quindi lo studio dello spirito o dell’anima. Il significato del termine, introdotto durante il XVI secolo, rimase immutato fino al secolo successivo, quando assunse il significato di “scienza della mente”. Negli ultimi cento anni l’accezione si è ulteriormente modificata adeguandosi alle nuove prospettive e alla moderna metodologia. Attualmente per Psicologia s’intende “la scienza che studia i processi psichici e mentali, nelle loro componenti consce e inconsce, attraverso l’uso del metodo scientifico e/o appoggiandosi ad una prospettiva soggettiva intrapersonale. Tale studio riguarda quindi i processi cognitivi e intrapsichici dell’individuo, il comportamento umano individuale e di gruppo, ed i rapporti tra il soggetto e l’ambiente” (fonte: wikipedia).
Lo sviluppo della Psicologia, in Occidente, ha seguito un percorso scandito dalla nascita di quattro grandi movimenti socioculturali: il comportamentismo (la prima forza della psicologia), inaugurato da John Watson agli inizi del Novecento e fondato sull’assunto che il comportamento, quale unità di analisi osservabile, fosse l’unico parametro degno di studio scientifico da parte della psicologia; la psicoanalisi (seconda forza della psicologia), fondata sulle teorie dell’inconscio elaborate da Sigmund Freud (1856-1939); la psicologia umanista (terza forza della psicologia), nata negli anni Settanta negli Stati Uniti ad opera di Abraham Maslow e di Carl Rogers, che individuarono nel bisogno di crescita e di affermazione le principali spinte di ogni comportamento umano; la psicologia Transpersonale (quarta forza della psicologia), di cui uno dei massimi esponenti è lo psichiatra contemporaneo Stanislav Grof, basata sull’assunto che l’essere umano non sia semplicemente un’unità bio-psichica, ma un’entità potenzialmente collegata, nella sua più intima realtà, ad una dimensione spirituale.
Esiste poi una quinta forza della psicologia, chiamata da alcuni Ecopsicologia o Psicoenergetica, profeticamente annunciata nei libri dello psichiatra italiano Roberto Assagioli. Questa disciplina “avrà per oggetto l’indagine di tutte le forze esistenti nell’universo e dei loro rapporti, vale a dire le energie fisiche, biologiche, psichiche, spirituali, transpersonali e trascendenti” (R.Assagioli, “Comprendere la Psicosintesi”, 1991).
Ognuno di questi movimenti ha dato enormi contributi alla comprensione della realtà psichica umana.
Ad un attento esame, è possibile rintracciare molti punti di contatto tra la psicologia nata e sviluppata in Occidente e la psicologia tramandata dai grandi Maestri dell’India antica. Come ha ben sottolineato il prof. Marco Ferrini in una conferenza dal titolo “La Psicologia Occidentale e la Scienza dei Veda: modelli culturali a confronto”, tenuta nel marzo 2013 a Roma presso l’Ordine degli Psicologi del Lazio, “C.G. Jung era solito mettere in evidenza le analogie tra psicoanalisi e yoga; auspicava l’approfondimento di un dialogo tra queste due tradizioni, in particolare tra la via dello yoga e il processo di individuazione”.
Tra gli innumerevoli testi sacri della letteratura indovedica, gli Yoga Sutra di Patanjali, per la profondità dei concetti e la compiutezza del metodo, rappresentano una delle più brillanti opere di psicologia mai concepite da un essere umano.
Compilatore di Insegnamenti che fino ad allora erano stati tramandati solo oralmente, a Patanjali va il merito, come ha scritto Mircea Eliade “di aver trasformato una tradizione mistica come lo Yoga in un sistema filosofico” (M. Eliade, Lo Yoga. Immortalità e libertà, BUR, 2010).
Conosciuto anche come “Il sentiero degli otto passi”, il sistema di psicologia sviluppato dal grande saggio Patanjali, ci accompagna attraverso un cammino che, a partire da pratiche semplici e accessibili a tutti, conduce ad esplorare le zone più remote della coscienza, fino ad illuminarne tutti gli anfratti e ad aprire la porta a realizzazioni gioiose che culminano nella Vetta più suprema della coscienza, l’unione con Dio.
Gli otto passi sono i seguenti:
1) YAMA,le astensioni.
Patanjali esordisce mettendo come condizione irrinunciabile alla conquista della felicità la capacità di rinunciare alle abitudini che ci allontanano dal nostro vero sé distraendoci dallo scopo della vita umana, la realizzazione spirituale. Comprende cinque leggi etiche e morali indipendenti da tempo, luogo e circostanze:
a) la non violenza (ahimsa): evitare di infliggere dolore di qualsiasi tipo a qualsiasi essere vivente;
b) la verità (sathya): la sincerità, soprattutto con sé stessi;
c) l’onestà (asteya): l’astensione dalla cupidigia e dall’avidità;
d) la castità (brahmacharya): essere puri nei sentimenti;
e) il distacco (aparigraha): l’astensione dalla bramosia del possedere.
2) NIYAMA, le regole dell’autopurificazione.
Esse sono:
a) la pulizia (saucha): curare la salute fisica, l’ordine e la purezza interiore;
b) l’appagamento (santosha): essere felici e accontentarsi;
c) l’austerità (tapas): il fervore nel lavoro, il desiderio di evoluzione spirituale;
d) lo studio di sé stessi (svadhyaya): analizzarsi introspettivamente;
e) l’abbandono a Dio (ishvara pranidhana): la resa al Signore di tutti i nostri pensieri ed azioni.
I primi due passi dello Yoga sono evidentemente dedicati a rispettare ed onorare il Dharma, il Divino ordine socio-cosmico che regola e sostiene la vita dell’uomo e dell’universo (la radice sanscrita dhr, sulla quale si costruisce il termine, significa infatti “reggere, sostenere”). Il dharma non è un ordine artificiale che determina una repressione delle istanze profonde dell’essere (così come ad esempio Freud concepisce il Super-Io), bensì quella norma universale che è inscritta nell’intimo di ogni creatura e la cui infrazione provoca una condizione innaturale, limitante e patologica, inevitabilmente segnata da conflitti e sofferenze.
Nel sistema dello yoga, la felicità non è quella che nasce dalla gratificazione dei sensi. Come afferma la Bhagavad-gita (V.22): “La persona intelligente si tiene lontana dalle fonti della sofferenza, determinate dal contatto dei sensi con la materia. O figlio di Kunti, tali piaceri hanno un inizio e una fine, perciò l’uomo saggio non se ne compiace.”
3) ASANA
Questo “passo” è la parte più conosciuta dello Yoga. Le asana sono posizioni del corpo che favoriscono la purificazione dei canali energetici (le nadi), la chiarezza mentale e il benessere psicofisico.
Le asana conosciute sono alcune migliaia; ciascuna di esse porta un nome derivato dalla natura (soprattutto da animali) o dalla mitologia induista.
“Mens sana in corpore sano”, l’espressione di Giovenale che indicava nella sanità dell’anima il segreto per la salute del corpo, viene ribadita anche da Patanjali, che indica il corpo come depositario ultimo del complesso bagaglio di azioni, motivazioni e pensieri che modellano la nostra personalità.
L’effetto secondario di questa pratica è ottenere un corpo sano e snello, ma il vero scopo è educare gradualmente la mente alla quiete e alla consapevolezza.
4) PRANAYAMA
Questa pratica insegna a controllare la respirazione e la mente.
La parola “pranayama” è formata da “prana” (fiato, respiro, forza) e “ayama” (lunghezza, espansione, controllo). Attraverso questa pratica è possibile controllare ed estendere la nostra energia vitale.
Lo Srimad-Bhagavatam riporta la storia di un principe di nome Dhruva Maharaja, che si recò nella foresta per praticare questa disciplina allo scopo d’incontrare Sri Visnu. Egli praticò lo yoga in modo così determinato che finì per nutrirsi solo di foglie. Rimase in piedi su una gamba per praticare il pranayama, riducendo gradualmente la frequenza del suo ciclo di respirazione fino ad inspirare ed espirare solo una volta ogni sei mesi. In questo modo ottenne di incontrare il Signore Supremo. Allungando gradualmente il ciclo della respirazione si possono controllare le azioni del corpo e della mente. Se la mente diventa serena, si può passare dall’impegno nel mondo esterno alla concentrazione interiore. Noi tutti conosciamo l’espressione “Fai un respiro profondo” per calmare la mente. E funziona.
5) PRATYAHARA
Questo stadio dello Yoga permette di ritirare l’attenzione dagli oggetti dei sensi e di rivolgere lo sguardo all’interno di noi. Per accedere a questo livello è necessario aver compreso ed applicato i primi quattro passi del sistema di Patanjali.
Con questo quinto “passo” si conclude la prima parte del cammino yogico, detto anche bahiranga sadhana, o yoga esteriore, per lasciare posto ai tre stadi superiori dello yoga, chiamati anche antaranga sadhana, o yoga interiore.
6) DHARANA
Con il termine dharana s’intende la concentrazione pura, la capacità di fondersi con un oggetto interno o esterno.
7) DHYANA
E’ lo stadio della meditazione. Corrisponde allo Chan cinese e allo Zen giapponese.
Oggigiorno le persone usano il termine meditazione per descrivere praticamente ogni tipo di concentrazione. Alcuni pensano che semplicemente stare seduti, rilassarsi e lasciar vagare la mente sia meditazione. Nel sistema classico dello yoga descritto nella tradizione vedica, invece, la meditazione non si può realizzare senza aver prima completamente eliminato tutti gli impegni esteriori dei sensi e aver concentrato la coscienza sul sé. Solo allora si può avanzare al livello di dhyana.
8) SAMADHI
Per samadhi s’intende uno stato di coscienza superiore in cui si realizza l’unione dell’anima individuale con l’anima universale. E’ solo a questo stadio che si raggiunge il completo benessere ed equilibrio, la realizzazione totale del Sé.
La pratica di questo tipo di yoga – come è facilmente intuibile – è estremamente difficile nell’era moderna. Gli yogi del passato andavano nella foresta per praticare l’ ashtanga-yoga e lasciare il corpo, ma per ottenere la perfezione spirituale nell’era attuale, il Kali-yuga, la letteratura vedica non consiglia l’ ashtanga-yoga perché è una pratica molto difficile.
Consiglia invece il semplice, sublime metodo del canto del maha-mantra Hare Krishna, pratica centrale del Bhakti Yoga, che può essere praticato ovunque, anche in un’abitazione al centro di una città.
“Il Bhakti Yoga, la via del puro amore per Dio, senza ombra di azione interessata o di speculazione filosofica, costituisce la tappa finale dello yoga e si pratica con l’abbandono di sé a Dio, Shri Krishna, attraverso le nove attività devozionali (ascoltare ciò che riguarda il Signore, glorificarLo e offrirGli canti, ricordarsi sempre di Lui, servire i Suoi piedi di loto, adoraLo, offrirGli preghiere, servirLo, essere legati a Lui da un rapporto di Amicizia, abbandonarsi completamente a Lui) e sotto la guida di un maestro spirituale” (Sua Divina Grazia A.C. Bhaktivedanta Swami Prabhupada, Glossario della “Bhagavad-gita così com’è”).
Krishna nella Bhagavad-gita afferma che, praticando il bhakti-yoga, si possono ottenere tutti i risultati realizzati praticando qualunque altro tipo di yoga. Lo Srimad-Bhagavatam (12.3.52) a sua volta ribadisce: “Qualsiasi risultato si poteva ottenere nel Satya-yuga con la meditazione su Vishnu, nel Treta-yuga con il compimento di sacrifici e nel Dvapara-yuga con il servizio ai piedi di loto del Signore, può essere ottenuto nel Kali-yuga col semplice canto del maha-mantra Hare Krishna.”
Lo stesso Patanjali, intuendo la complessità del suo metodo per l’uomo del Kali-yuga, enuncia un sutra emblematico, il XXIII del Samadhi Pada: ishwara pranidhanad va = “Oppure (il samadhi può essere ottenuto) praticando l’abbandono a Dio”.
Scrive Marco Ferrini in “Psicologia dello Yoga”: “Il samadhi può anche manifestarsi non necessariamente come il frutto di una metodologia rigorosa ma spontaneamente, causato dall’Amore per Dio (bhakti). Il samadhi di cui si parla in questo sutra non segue la gradualità descritta in precedenza. Patanjali si riferisce all’abbandono cosciente a Dio, frutto di una ricerca costante e continua, di una raccolta di tutte le migliori risorse che una persona può offrire all’Essere Supremo”.
Gli ashtanga-yogi si sforzano di attraversare l’oceano della sofferenza materiale con le proprie forze ma non hanno alcuna garanzia di riuscirci. Colui che si arrende a Krishna può invece facilmente accedere ad una visione superiore: “Questa Mia energia divina, costituita dalle tre influenze della natura materiale è difficile da superare, ma coloro che si abbandonano a Me ne varcano facilmente i limiti” (Bhagavad-gita 7.14).
Gli scritti vedici come la Bhagavad-gita, lo Srimad Bhagavatam e gli Yoga Sutra di Patanjali, come ormai riconosciuto da molti illustri studiosi occidentali di psicologia, descrivono in modo mirabilmente dettagliato le funzioni mentali, intellettive ed emotive delle anime incarnate, le cause delle sofferenze fisiche e psicologiche e i possibili rimedi da applicare.
Forniscono anche una conoscenza dettagliata della dimensione materiale sottile e alcune tecniche per sviluppare una coscienza più profonda e matura dell’esistenza umana e del suo vero scopo.
Nel 1975 a Perth, in Australia, Srila Prabhupada disse ad uno psichiatra che la mancanza della coscienza di Dio indicava una scarsa salute psicologica: “L’intera società umana, oggi in particolare, ha abbandonato la coscienza di Dio. Non sono interessati. Questa è la loro malattia. Perciò tutti hanno bisogno di cure. E la migliore delle cure è portarli a diventare coscienti di Krishna”.
Cateca