“Poiché tu sei un amico molto caro, ti rivelo la Mia suprema istruzione, la più confidenziale tra le conoscenze. Ascoltala da Me perché te la rivelo per il tuo bene.”
(Bhagavad-gita, 18. 64)
PSICOTERAPIA: LO STATO DELL’ARTE
Uno dei contributi più originali e interessanti allo studio delle tecniche e dei metodi psicoterapeutici praticati nell’area culturale europea e nordamericana è rappresenato da un volume dal titolo “La ricerca in psicoterapia – modelli e strumenti”, di N. Dazzi, V. Lingiardi e A. Colli, edito da Raffaello Cortina. Il libro, realizzato grazie alla collaborazione dei più brillanti e rappresentativi studiosi italiani nel campo della ricerca empirica in psicoterapia, raccoglie e organizza lo stato dell’arte riguardante svariati settori della disciplina psicoterapica, offrendo una bibliografia di oltre 2500 voci che rendono questo testo il più aggiornato e completo sull’argomento.
La ricerca sull’efficacia della psicoterapia ha avuto un grande sviluppo negli ultimi 60 anni. Con la pubblicazione delle registrazioni di tutte le sedute di una psicoterapia, Carl Rogers (1957) diede impulso allo studio fenomenologico sull’interazione paziente-terapeuta, postulando l’esistenza di condizioni necessarie sufficienti per la promozione del cambiamento, comuni a tutti i paradigmi psicoterapeutici. Molti anni dopo, Smith, Glass e Miller (1980) con l’adozione della metanalisi, che permette di comparare protocolli di ricerca diversi tra loro, hanno aperto un altro fecondo territorio all’indagine empirica sui comuni denominatori in psicoterapia (Zucconi, 1982; Horvath & Greenberg, 1994; Norcross, 2002; Levant, 2005).Tuttavia le metanalisi non sono ovviamente in grado di dare risultati totalmente generalizzabili, vista la specificità di ogni singolo paziente.
Ogni percorso terapeutico ha il suo carattere, le sue necessità, la sua etica: vi sono viaggi lunghi in cui a volte nemmeno la bussola riesce a darci la giusta direzione di marcia, e percorsi più brevi, costruiti su esigenze specifiche del viaggiatore e più strettamente, talvolta riduttivamente, pianificati.
Come identificare i fattori che dovrebbero aiutarci a capire se e come la terapia ha funzionato? La scomparsa di un sintomo è un buon indicatore? E’ utile seguire il consiglio di alcuni ricercatori come Norcross e dedicarci allo studio della “qualità della relazione e degli atteggiamenti del terapeuta”, più che delle specifiche “tecniche di trattamento”?
Per raccontare il percorso che paziente e psicoterapeuta affrontano insieme si fa spesso ricorso alla metafora del viaggio.
Ben prima di mettersi in cammino, ogni viaggiatore ha un suo bagaglio di caratteristiche, esperienze, conoscenze. Paziente e terapeuta hanno una propria storia personale e culturale, un’organizzazione di personalità, uno stile di adattamento, una concezione del mondo e della vita da cui non si può prescindere.
La costruzione e lo sviluppo della relazione terapeutica stessa non possono trascurare questo carico, che si manifesterà in modi diversi, più o meno espliciti. Per esempio, nel trovare un accordo sulla meta da raggiungere e sui mezzi per raggiungerla, cioè nel disegnare quell’area genericamente chiamata “alleanza terapeutica”. Concetto tra i più indagati dalla ricerca in psicoterapia, esso viene indicato come il fattore aspecifico con maggiore capacità predittiva rispetto al risultato, ma, al tempo stesso, è sempre più frequentemente messo in discussione per la sua genericità e sovrapposizione concettuale con altre dimensioni relazionali quali transfert-controtransfert (modo in cui il terapeuta vive la relazione con il paziente), relazione reale, capacità di funzionamento riflessivo ecc.
Uno degli scopi della ricerca in psicoterapia è studiare se e quando i nostri viaggiatori arriveranno alla meta. E’ questa la ricerca sull’outcome, che vuole rispondere alla domanda se la psicoterapia funziona. Lo studio, invece, di ciò che accade durante il viaggio in relazione alla sua destinazione, prende il nome di ricerca process-outcome.
Ma come si misura la riuscita di un viaggio? Qual è il mezzo migliore per viaggiare? Quale il prezzo? Quanto è sicuro il mezzo di trasporto? Quanto conta l’abilità e l’esperienza del guidatore? Quali sono i veicoli migliori in relazione al territorio da attraversare? Quanto tempo abbiamo a disposizione? E qual è la distanza da attraversare? Le terapie cognitiviste e comportamentali sono più efficaci di quelle psicodinamiche? Qual è il trattamento migliore per un determinato disturbo? Vi sono alternative percorribili? Come si possono confrontare viaggi diversi?
Un’ipotesi sperimentale ha proposto di confrontare due gruppi di viaggiatori che utilizzano mezzi di trasporto diversi, osservandoli alla partenza e all’arrivo.
Ma le cose non sono così semplici, e potrebbe sorgere il dubbio che studiare solo la partenza e l’arrivo ci dica poco della vera esperienza del viaggio: per esempio, siamo sicuri che chi avrebbe dovuto prendere la macchina ha davvero usato la macchina (aderenza ai trattamenti)? E se la riuscita del viaggio dipendesse più dalla qualità della relazione tra i due viaggiatori (fattori aspecifici) che dai mezzi impiegati (fattori specifici)? Il viaggio è un’esperienza “unica” o può essere scomposto nelle sue componenti?
Per rispondere a molte di queste domande si potrebbe adottare un’altra metodologia di studio: non il confronto tra gruppi di viaggiatori (RCT, randomized clinical trials), ma lo studio intensivo di alcuni viaggiatori, seguiti passo dopo passo nel loro percorso (studi single-case), nel tentativo di capire che cosa realmente accade durante il viaggio (ricerca sul processo), quali sono gli aspetti specifici (i costrutti: rotture e riparazioni, attività referenziale, interventi del terapeuta ecc.) che permettono di procedere in modo soddisfacente ed efficace.
Ma gli strumenti della ricerca in psicoterapia sono tutti ugualmente affidabili e attendibili? Tragitti simili compiuti e/o misurati in paesi diversi ci danno informazioni confrontabili?
La ricerca in psicoterapia sembra costantemente in conflitto tra complessità clinica e rigore metodologico.
Gli studi single case sembrano essere più vicini alla realtà clinica, perché possono essere condotti abbastanza facilmente in setting privati e perché permettono di mettere a fuoco aspetti tecnici specifici della clinica, ma allo stesso tempo vengono criticati per la loro scarsa generalizzabilità.
Gli sudi RCT sono esplicitamente pensati per rispondere alla domanda sull’efficacia comparata di diversi trattamenti. Una conseguenza di questi disegni, però, è che vengono validati i trattamenti ma ignorati i protagonisti (pazienti e terapeuti) secondo il mito dell’uniformità dei soggetti. Gli RCT ci dicono se le differenze nelle medie dei gruppi sono statisticamente significative, ma non prendono in considerazione il cambiamento nel singolo individuo.
La controversia sugli RCT rimanda direttamente al problema dei trattamenti validati empiricamente (EST, empirically supported treatments). L’acronimo EST fa riferimento a modalità d’intervento terapeutico la cui efficacia sia stata empiricamente dimostrata. La logica degli EST è evidentemente discutibile, vista la poca applicabilità della sua filosofia e dei suoi metodi alla ricerca in psicoterapia.
I trattamenti analitici e la psicoanalisi sono, ad esempio, sistematicamente esclusi dalla ricerca, poiché i pochi studi che si sono occupati di verificare l’efficacia dei trattamenti analitici non rientrano nei criteri enunciati dal movimento degli EST (gli RCT limitano la durata delle terapie valutata a un massimo di 16 settimane, una durata idonea per terapie comportamentali e cognitive, ma non per terapie psicoanalitiche). Ne consegue che, poiché la terapia analitica non rientra nei canoni metodologici empirici e quindi non può essere validata, allora non è efficace.
Dovremmo invece chiederci se il modello medico sottostante alle opzioni metodologiche degli EST sia sempre e comunque applicabile alla ricerca in psicoterapia.
Nata inizialmente in un clima di forti aspettative, la ricerca in questo ambito si è assunta il compito di traghettare la psicoterapia nel mondo delle hard sciences, così da rispondere agli attacchi provenienti dai più disparati ambiti, in particolare da quello epistemologico (il problema della mente che studia se stessa, soggettività dell’esperienza contro oggettività della scienza ecc.) e da quello economico (se non si dimostra che la psicoterapia è una cura efficace, perché mai le compagnie assicurative dovrebbero riconoscerla come forma sostenibile di trattamento? Perché sponsorizzare la ricerca in psicoterapia visto che i trial farmacologici sono assai più remunerativi?).
I RISULTATI DELLA RICERCA IN PSICOTERAPIA
Lambert e Bergin (1992), in un capitolo scritto per un libro sulla storia della psicoterapia in America, pubblicato dall’American Psychological Association in occasione del centenario della sua fondazione (1992), provano a riassumere in dieci punti le principali conquiste della ricerca in psicoterapia: 1) dimostrazione che gli effetti della psicoterapia superano quelli della remissione spontanea; 2) dimostrazione che gli effetti della psicoterapia sono positivi; 3) dimostrazione che gli effetti della psicoterapia superano quelli dei gruppi di controllo trattati con placebo; 4) modificazione della definizione di placebo, ora più precisa e appropriata, per le ricerche in psicoterapia; 5) dimostrazione che i risultati della psicoterapia, anche in campioni omogenei, variano più a causa delle variabili legate alla “persona” del terapeuta che alle “tecniche” usate; 6) dimostrazione che esiste una relativa equivalenza nei risultati per un vasto numero di terapie, indipendentemente dalla loro durata e dalle tecniche impiegate; 7) dimostrazione dell’efficacia di alcune terapie specifiche per alcuni disturbi specifici; 8) dimostrazione del ruolo interattivo e sinergico degli psicofarmaci e della psicoterapia; 9) dimostrazione dell’importanza centrale del rapporto paziente-terapeuta nel predire e possibilmente causare modificazioni di personalità; 10) documentazione dei possibili effetti negativi della psicoterapia e lo studio dei processi che portano al deterioramento del paziente.
Ogni tentativo di sintetizzare i risultati emersi dalle tantissime ricerche in questo campo non può che peccare di parzialità e insufficiente obiettività a causa dell’angolo visuale dal quale inevitabilmente si osserva questa enorme massa di dati, ma emerge in modo ricorrente e indiscutibile il ruolo determinate della qualità della relazione, a dispetto delle tecniche utilizzate, nel determinare la riuscita del percorso terapeutico. Ciò ha indotto a ridefinire meglio l’oggetto d’indagine della ricerca psicoterapeutica e a rivedere la concezione stessa di salute e malattia, dei suoi significati, delle sue funzioni.
Paradossalmente, il vero successo della ricerca in psicoterapia, dopo l’intensa proliferazione di strumenti di misurazione, sembra essere il ritorno ad una riflessione su sé stessa, sulla sua ragione d’essere e sui suoi obiettivi.
Indagare e scoprire nuove potenzialità all’interno delle relazioni umane potrebbe aprire scenari luminosi per restituire alla psicologia tutto il suo patrimonio culturale e spirituale di scienza dell’anima (Psicologia è un termine che deriva dal greco ed è formato da logos, che significa “studio, scienza”, e da psyché, che significa appunto “spirito, anima”).
LA TRADIZIONE INDOVEDICA
La tradizione indovedica, con la sua mole di letteratura sull’argomento – inspiegabilmente ignorata dalle università occidentali – offre contributi preziosi e necessari alla comprensione delle dinamiche affettive e relazionali, dei risvolti emotivi e dei sentimenti ad esse sottesi, fornendo teorie, strumenti e metodi di crescita psicologica e spirituale.
Un monumento alla scienza psicologica come la Bhagavad-gita, ad esempio, utilizzando il linguaggio del mito e del racconto, ci svela le cinque verità fondamentali sulla condizione degli esseri viventi: Dio, l’individuo, la natura, il tempo e l’azione, e attraverso un avvincente dialogo tra coscienza superiore (Krishna) e anima condizionata (Arjuna), svela via via tutti i segreti di una conoscenza confidenziale, intima, spirituale, intrisa di passaggi gioiosi che parlano direttamente al cuore del lettore.
Pronunciate direttamente da Dio, le parole che compongono gli shloka della Bhagavad-gita, contengono una potenza rivelatrice che illumina concetti portanti della scienza psicologica.
Ad esempio, sul ruolo della volontà e del senso di responsabilità rispetto alle azioni che l’essere umano compie, sul senso di colpa che le accompagna, sulla natura dell’identità individuale, il terzo capitolo offre svariati temi di riflessione: rapporto tra io (falso ego) e anima spirituale, influenza dei guna (gli attributi della materia) sul comportamento, condizione esistenziale di chi agisce lasciandosi guidare da una coscienza materiale:
prakriteh kriyamanani
gunaih karmani sarvasah
ahankara-vimudhatma
kartaham iti manyate
“Sviata per l’influenza del falso ego, l’anima spirituale, crede di essere l’autrice delle proprie azioni, che in realtà sono compiute dalle tre influenze della natura materiale”(verso 3.27)
In merito all’esercizio della libertà nel rispetto di un ordine etico superiore (il dharma) e alla necessità per l’individuo di mantenere e coltivare il collegamento con il mondo dello spirito e con la sua vera natura, troviamo varie a articolate spiegazioni.
sreyan sva-dharmo vigunah
para-dharmat sv-anusthitat
sva-dharme nidhanam sreyah
para-dharmo bhayavahah
“È molto meglio compiere il proprio dovere, anche se in modo imperfetto, che compiere perfettamente quello altrui. È meglio fallire nel compimento del proprio dovere che impegnarsi nei doveri di altri perché seguire la via altrui è pericoloso.”(verso 3.35)
Riguardo al tema dei rapporti, tutta l’opera è un costante richiamo alla felicità che deriva da un’unione salda ed elevata con tutte le creature:
samam pasyan hi sarvatra
samavasthitam isvaram
na hinasty atmanatmanam
tato yati param gatim
Chi vede in ogni essere l’Anima Suprema, ovunque la stessa, non si lascia trascinare dalla mente alla degradazione. Si avvicina così alla destinazione trascendentale ( verso 29.13)
E anche:
sarva-bhuta-stam atmanam
sarva-bhutani catmani
iksate yoga-yuktatma
sarvatra sama-darsanah
Il vero yogi vede Me in tutti gli esseri viventi e vede tutti gli esseri viventi in Me. In verità, la persona realizzata vede Me, il Signore Supremo, in ogni luogo ( verso 29.6)
Il dialogo tra Arjuna e Krishna possiede l’eco di una psicoterapia perfetta, fatta di tempismo (rassicurazione e consolazione iniziale, seguita da ritmi incalzanti ed esortazioni, in un generale clima di accettazione e comprensione) che si conclude così:
iti te jnanam akhyatam
guhyad guhyataram maya
vimrisyaitad asesena
yathechasi tatha kuru
“Ti ho svelato così la conoscenza più confidenziale. Rifletti profondamente, poi agisci secondo il tuo desiderio.” (verso63.18)
Scrive, nell’Introduzione alla “Bhagavad-gita così com’è”, Sua Divina Grazia A.C. Bhaktivedanta Swami Prabhupada:
“La Bhagavad-gita (conosciuta anche come Gitopanisad) è considerata una delle maggiori Upanisad e costituisce l’essenza della conoscenza vedica…. Che cosa si propone la Bhagavad-gita? Il suo fine è quello di liberare gli uomini dall’ignoranza a cui li ha costretti l’esistenza materiale. Ogni giorno l’uomo si trova alle prese con mille difficoltà. Arjuna, per esempio, sta per affrontare una guerra fratricida; deve o non deve combattere? Chiuso nel suo profondo dilemma, egli cerca una soluzione rivolgendosi a Krishna, che gli espone allora la Bhagavad-gita. Come Arjuna, anche noi siamo immersi nell’angoscia a causa dell’esistenza materiale, che consideriamo come l’unica realtà. Ma noi non siamo fatti per soffrire, perchè siamo eterni e la nostra vita in questo mondo illusorio (asat) è solo passegera. Tutti gli esseri umani soffrono, ma ben pochi indagano sulla loro vera natura o sulla ragione della sofferenza. Nessuno sarà veramente perfetto se non si chiede il perchè della sofferenza, se non la rifiuta e sceglie di porvi rimedio. Possiamo considerarci uomini solo quando questa domanda si affaccia alla nostra mente”
Una psicoterapia che non si interroghi sulle qualità dell’anima e sul vero scopo dell’esistenza umana rischia evidentemente di rimanere impantanata su questioni di statistica e di calcoli delle probabilità, allontanandosi dal suo vero senso e dalla sua funzione.
Il sistema di pensiero bhaktivedantico, basato su una tradizione millenaria e sostenuto da teorie e da tecniche collaudate nel corso dei secoli dai grandi rishi, offre la certezza di una conoscenza pura ed eterna, fonte di ispirazione e di gioia per la conquista di una salute fondata sull’Amore.
“Le vostre cure non serviranno a niente se non ci metterete amore” (San Pio)
“Nessuna medicina è in grado di curare cià che la felicità non riesce a curare”(Gabriel Garcia Marquez)
“La medicina migliore per l’uomo è l’uomo stesso. Il massimo grado di medicina è l’amore”. (Paracelso)
Caterina Carloni